Francesco D’Episcopo – 2018

L’inquietudine della creazione

Luciano Cirillo è un uomo del nostro Sud, trapiantato al Nord, dove si è formato artisticamente frequentando soprattutto il fertile ambiente dell’Accademia di Brera. Le sue radici restano, tuttavia, inevitabilmente meridionali, mediterranee, legate alla terra, al sole di un Sud, che egli non ha mai realmente abbandonato, perché continuano a convivere dentro di lui, congiungendosi positivamente con esperienze che ha potuto coltivare e sviluppare in un Nord, carico di stimoli artistici e culturali, nel quale egli ha innestato la sua passione, la sua inquietudine creativa e critica, che, tra l’altro, non si esercita solo nella pittura e scultura ma si estende anche alla poesia, la quale diviene uno strumento privilegiato, anche se trascurato dalla critica, per intendere il senso, talvolta segreto, dei suoi ardenti ed avidi processi creativi.

Diverse sono state le stagioni che hanno scandito l’itinerario artistico di Cirillo: dal Cilento degli anni sessanta al ’68, che già segna una svolta; dal chiarismo degli anni ’70 al passaggio, davvero epocale, degli anni ’80, non trascurando una fase artistica e letteraria fondamentale, legata alla rilettura fortemente personale della Divina Commedia.

Il tema della gestualità, congiunta strettamente a quello dell’emozione, generato soprattutto dal motivo conduttore dell’amore, conquista uno spazio sempre più predominante nell’arte del nostro autore, il quale, partendo sempre dalla realtà e dalle occasioni persino quotidiane che essa offre, tende a proiettarsi in una dimensione cosmologica, sempre più ampia e articolata, conquistando un posto di notevole rilievo nel variegato panorama dell’arte contemporanea. Il colore, in tutte le sue gamme e variazioni, la fa da padrone, invadendo la materia della sua luce e del suo fulgore, che non possono che essere ricondotti ad una solarità originariamente meridionale; allo stesso tempo, la materia smarrisce la sua iniziale consistenza fisica e si riduce ad una sorta di essenzialità simbolica, rilevante frutto dell’inconscio progressivo dell’artista, il quale avverte sempre più l’esigenza di un rigore, della costruzione di uno spazio sempre più contenuto entro i propri limiti, nella scansione segnica di un cromatismo, mai rinnegato, ma ora avvertito come autonomo creatore di un tempo interiore e infinito.

Cirillo, insomma, si è raddensato sempre più nel suo rapporto con il colore, che rischierebbe di apparire surreale se non fosse sempre ricondotto a una sua base concreta, reale, che è poi la sua antica anima parmenidea, eleatica (Agropoli non è molto lontana da Ascea), in cui l’Essere domina ogni possibile e transeunte divenire della vita e della storia.

E questo aspetto merita di essere particolarmente evidenziato da un critico del Sud, qual è chi scrive, suo fratello d’anima, che ben conosce le profonde radici antropologiche del nostro “fare arte”, il quale, oltre le sconfinate prospettive cosmologiche, non può che rinviare alle colate laviche di un vulcano che giace dentro di noi ed esplode ciclicamente, lasciando solchi consistenti del proprio passaggio.

Siamo comunque contenti di condividere con il nostro conterraneo i segni di un successo nazionale, ben meritato, che ha lasciato tracce concrete e corpose di un transito, legato ai grandi temi della pace e della partecipazione a un destino di comunione e fratellanza, scandito dall’amore e dal rispetto del prossimo, chiunque egli sia. E anche questo aspetto rinvia a una sorta di evangelismo, profondamente democratico, che ancora vige nelle nostre campagne meridionali, dalle quali ha spiccato il volo il nostro Luciano Cirillo.

Francesco D’Episcopo