Marina Pizziolo – 1986

La passione della ragione a cura di
Marina Pizziolo aprile 1986
LA PASSIONE DELLA RAGIONE

Per alcuni artisti la pittura rappresenta una mera ricerca formale, cromatica. Per altri, al contrario, forme e colori sono solamente il pretesto per sottintendere funambolismi concettuali dal significato “esoterico”, riservato ad una ristretta cerchia di iniziati. Pochi credono ancora alla pittura come messaggio, come mezzo per spezzare il silenzio che ci avvolge, proprio nel frastuono delle nostre città.

Alla pittura come missione, inelusibile impegno della coscienza: riscatto di una condizione umana terribile, ma mai disperata.

Luciano Cirillo, con la sua appassionata ricerca pittorica, appartiene a questa esigua schiera di alfieri della possibilità di dialogare, nonostante tutto, della necessità di capire e farsi capire.

Facendo della sua pittura una specie di scandaglio, ha esplorato nel corso degli anni quel mare mutevole che si agita dentro ognuno di noi: quel mare fatto di paure, rimorsi, desideri, sogni. Ed esplorando è cresciuto, cercando, ha trovato sempre nuovi strumenti per la sua sensibilità, nuove corde da far vibrare con la sua poesia.

Quello di Cirillo è indubbiamente un cammino, un’evoluzione sofferta. Le tappe del suo essere uomo, prima che artista, hanno assunto di volta in volta forme diverse: come in ogni ricerca sincera, autentica, nella sua evoluzione pittorica non c’è spazio per una simulata coerenza.

Eccolo così spaziare da una pittura di stampo espressionista ad un naturalismo già venato, però, delle prime allusioni simboliche. E di lì virare poi verso la poetica surrealista, fino ad approdare alle suggestioni di un astrattismo affine, per certi versi, al raggismo di Larionov.

La prima parentesi espressionista trova Cirillo poco più che ventenne teso a realizzare un proposito impegnativo: l’illustrazione della Divina Commedia. L’opera di Dante si rivela per l’inesausta voglia di denuncia di Cirillo, una vera miniera di ispirazioni. Sono anni di crisi quelli attorno al fatidico ’68: una crisi che investe i valori sociali, morali, religiosi. Ed è questa crisi che Cirillo denuncia, questa crisi troppo spesso usata, in buona o mala fede, come alibi per sfuggire alle proprie responsabilità, come pretesto per avvallare il proprio prevaricante egoismo. Il male” esiste sempre invece e l’inferno di Dante è ancora il “nostro” inferno. Solo che ogni epoca ha i suoi delitti, le sue colpe, i suoi peccati…

Le tele di questo periodo rappresentano in effetti quasi i frammenti di un unico, grande ciclo pittorico, in cui lo smarrimento, l’angoscia si fanno nero inquietante, da cui emergono figure che sono si la proiezione dell’immaginario dantesco, ma possiedono allo stesso tempo una loro tragica

attualità nei rimandi, inevitabili per noi, donne e uomini del nostro tempo, a delitti diversi ovviamente dall’eresia o la lussuria, ma ugualmente infamanti.

Dalla denuncia, seppure mediata dall’allegoria dantesca, al “racconto”. Racconto inteso come descrizione di oggetti pregni di valenze evocative. Oggetti che appartengono ad un mondo contadino da dimenticare: per non soffrire troppo, visto che si è stati costretti ad abbandonarlo per sempre e venire in città, in cerca di un qualcosa che invece, senza accorgersene, ci si è solo lasciati alle spalle.

Ed ecco allora quelle composizioni di anfore, fiaschi, biccheri vuoti, sigarette lasciate in bilico a fumare sull’orlo del tavolo da qualcuno che se ne è andato in fretta, per non tornare.

Racconti desolanti, per il senso di solitudine infinita, amara. La stessa che emerge da quelle sculture contorte che Cirillo crea in quello stesso periodo, assemblando attrezzi contadini. Sinistri “rottami” di un mondo scomparso, che il ricordo idealizza, trasformandoli in forme fantastiche: “Il cavaliere”, “L’insetto”…

Altra parentesi, questa volta paesaggistica. Ma il tentativo di rassegnarsi, di trovar pace, quella pace che, giovanissimo, Cirillo esprimeva nei tramonti infuocati del suo Cilento, è di breve durata. Nella razionalità del paesaggio lombardo, nella natura domata dei parchi milanesi, l’artista non trova, o meglio, non ritrova “quell’eco della creazione” che solo è in grado di giustificare ai suoi occhi la riproduzione di un qualsiasi aspetto del paesaggio.

Torna dunque alle sue meditazioni etiche, ancora una volta in chiave espressionista.

Abbandonato lo “schermo” dantesco, Cirillo affronta appassionatamente i nodi cruciali della “questione sociale” che allora, siamo sul finire degli anni settanta, si dibatte.

E’ il periodo delle donne crocifisse, emblema di una “situazione femminile”, eternamente giocata sul tavolo verde della politica. Il periodo dei “cristi” neri, delle immagini deformi di un’umanità uscita dal disastro nucleare inutilmente annunciato.

Lo sgomento di Cirillo è quello di chi crede, ingenuamente purtroppo, che il progresso scientifico debba coincidere con la crescita morale. Nel suo sdegno, nel suo dolore rieccheggia l’eterno dramma dell’uomo che si scopre impotente a sconfiggere le forze del male.

Disperare allora? Oppure arrendersi alla logica di comodo “che tanto le cose sono sempre andate così”? No, d’un tratto la congestione delle immagini si placa, le tele di Cirillo di riempiono di un’aria rarefatta, di silenzio. I dipinti diventano enormi finestre spalancate sul vuoto surreale di uno spazio celeste, “invaso” dalla presenza di Dio. Una presenza inquietante, scomoda.

Scomoda per noi che vorremmo vivere e basta, nel caldo bozzolo dei nostri egoismi, delle nostre meschinità, della nostra tranquilla apatia. Invece no. Se è impossibile avere giustizia qui, ora, giustizia ci sarà almeno nell’altro mondo. Ecco il significato di quel volto divino che affiora come scoglio dall’azzurro del mare o si affaccia dai dipinti, cercandoci, per obbligarci ora, finché siamo in tempo, a scrutare in noi stessi e cambiare, rimediare. Ed ecco il perché di quelle croci che si allungano sulla superficie del mare come un immenso molo: passaggio obbligato, il supplizio del Calvario e metaforicamente la nostra rinascita in Dio, per raggiungere la terra che si stende di là dal mare, nel regno della luce…

Ma è anche questa una tappa, già superata. La necessità di cambiare, o meglio, di riflettere fedelmente nella pittura le tappe della propria evoluzione interiore ha portato infatti Luciano Cirillo ad esplorare le possibilità espressive offerte da un altro linguaggio: quello astratto.

Una “fuga dall’immagine” che non ha affatto il significato di un’evasione dall’impegno dei temi affrontati in passato, quanto quello di una ricerca.

L’astratto, l’indefinito diventa infatti la chiave per penetrare nell’infinito, per rendere il senso o perlomeno la profondità dell’eterno mistero della vita. Negli ultimi dipinti minute pennellate si sovrappongono, interrotte soltanto da fasci di luce, a formare istantanee di un viaggio senza fine: nella struttura della materia, nella magnifica inconsistenza del pensiero, forse nell’impalpabile schiuma di una nuvola…

E’ in fondo un gesto di umiltà. L’artista rinuncia alla possibilità di proporre un messaggio, preferisce piuttosto far parlare la nostra fantasia, la nostra anima. E’ come se gli ultimi dipinti fossero fatti a metà, volutamente: sta a noi colmare quel vuoto provando finalmente a usare le ali.